Nato per i minatori, amato dai fashion designer. Celebriamo l’International Workers’ Day ripercorrendo la strada che ha fatto l’abbigliamento da lavoro per diventare uno Statement Streetwear.
Simbolo di eguaglianza diventato ben presto ispirazione per gli stilisti di tutto il mondo, l’abbigliamento da lavoro – o workwear – esiste da millenni, ma con la prima Rivoluzione Industriale (fine 1700) l’avvento del sistema di fabbricazione dei prodotti, di produzione e forme di organizzazione e suddivisione del lavoro, mise in moto un processo ben strutturato che coinvolse anche le uniformi utilizzate dai lavoratori delle industrie metalmeccaniche, dai minatori, nelle officine e così via.
Risalgono all’inizio dell‘800, infatti, i modelli funzionali che comunemente conosciamo con il nome di uniformi per il lavoro, che prevedevano capi dai tessuti resistenti – come cotton canvas e il denim – provvisti di molte tasche (senza chiurusa) per riporre gli attrezzi in modo agevole.
Si fa spazio nella società una nuova classe sociale – con le proprie abitazioni in zone designate a ridosso delle industrie, i propri passatempi quando non impegnati nelle estenuanti e lunghe attività lavorative; sono riconoscibili dalle giacche in tessuto robusto e i pantaloni ampi che indossano: è la Working Class.
I primi indumenti prodotti in serie per i lavoro sono stati brevettati da Levi Strauss, ovvero la salopette e il pantalone in denim: presentavano entrambi rivetti e giunture in rame per essere più robusti e resistenti, diverse tasche sulle gambe e sui fianchi.
Si diffusero principalmente nell’America dell’Ovest tra minatori, fattori, operai delle fabbriche, fino a diventare – in epoca moderna – i due capi streetwear probabilmente più indossati al mondo.
A partire dagli anni ’30 del ‘900, con la diffusione sempre più accesa della lotta di classe tra sindacati e datori di lavoro, si è registrato un coinvolgimento da parte degli intellettuali per le condizioni spesso inumane della classe operaia, l’abbigliamento workwear assume una valenza sociale: molti personaggi pubblici, quali scrittori, pensatori, artisti, indossano giacche o pantaloni workwear per dimostrare la loro vicinanza alla causa dei lavoratori.

Molti artisti, soprattutto sovietici, adottano divise da lavoro per ragioni ideologiche, tra questi ci Aleksandr Rodchenko, László Moholy-Nagy e Archizoom Associati, che creano capi di abbigliamento in modo da contenere il kit di attrezzi per la pittura: l’uniforme diventa un simbolo di uguaglianza con doppia valenza, pratica e idealistica, che unisce diverse categorie di lavoro, non solo quelli più umili.
Famoso anche Siren Suit del 1944 indossato da Winston Churchill, grande sostenitore dei capi da lavoro come abbigliamento casual pratico, diventato poi l’iconico jumpsuit, con zip oppure bottoni.
La prima collezione della storia della moda ispirata al Workwear.

Dalla diffusione tra gli intellettuali, al mondo della moda il passo è stato breve: questo tipo di abbigliamento diventa fonte di ispirazione per alcuni tra gli stilisti più famosi al mondo.
I primi modelli genuinamente ispirati al Workwear arrivano durante la seconda guerra mondiale, per merito della stilista italiana Elsa Schiaparelli e la sua collezione “Cash and Carry”: abiti e tute squisitamente Haute Couture caratterizzate da grandi tasche e cerniere, capaci di contenere l’equivalente di una borsetta al loro interno.Yohji Yamamoto Workers collection Spring-Summer 1983
A seguire, sarà il lavoro di Yohji Yamamoto a partire dagli anni ’70, a essere fortemente influenzato dalla working class: uno stile che sposa perfettamente anche il minimalismo e il rigore giapponese, scelto dallo stilista in quanto esemplificativo del suo ideale di design.
Ancora Helmut Lang, Martin Margiela e Raf Simons negli anni Ottanta e Novanta mescoleranno tessuti robusti e silhouette oversize a capi sartoriali.
