Non passò molto tempo che i giapponesi iniziarono a notare la scarsa qualità dei jeans provenienti dagli States e – poiché storicamente hanno sempre avuto un’importante tradizione tessile – decisero di produrre un proprio denim cimosato, ovvero di larghezza ridotta e prodotto su telai a navetta, ispirato ai jeans iconici degli anni ’50 e dei primi anni ’60 che tanto avevano contribuito alla controcultura giapponese.

I tradizionali telai a navetta oyoda, ancora oggi utilizzati dagli artigiani giapponesi del denim, intrecciavano i fili di ordito e di trama con un componente chiamato “navetta”, appunto, che faceva girare il filo su due lati del telaio, avanti e indietro, consentendo una tramatura unica, resistente e impossibile da ottenere con i telai industriali che stavano già diventando dominanti in tutto il mondo.

Nel 1972, dopo ben otto tentativi, l’azienda tessile giapponese Kurabo riuscì a produrre il primo tessuto denim cimosato della storia del Giappone, chiamato KD8, nella sua fabbrica situata a Kojima, una città con un’importante tradizione tessile che oggi rappresenta l’epicentro del denim del paese.

L’anno seguente altri marchi iniziarono a produrre il proprio tessuto denim, come Big John, sempre con sede a Kojima e più tardi, nel 1979, Shigeharu Tagaki creò a Osaka il marchio Studio D’Artisan – oggi una delle icone del denim giapponese) – a cui si aggiunsero in seguito i marchi Denime, Evisu, Fullcount e Warehouse.

Insieme formarono quello che divenne noto come “Osaka 5”, creando uno stile distintivo e stabilendo le basi di quella che è diventata la cultura del denim giapponese, ai quali si aggiunsero altri marchi, come Samurai.
Grazie all’ossessione per la perfezione, l’utilizzo di macchinari tradizionali e la dedizione al lavoro ben fatto, i brand di denim giapponese superarono qualitativamente e per prestigio, i jeans americani a cui si ispiravano all’origine, creando una “scuola” propria, fatta di segni distintivi e dettagli irrinunciabili, da renderla riconoscibile in tutto il mondo.