Clubwear, il precursore dello Streetwear
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La moda, nella sua totale funzione di comunicazione permanente e libera dalla dipendenza del marketing, si unì naturalmente al movimento dei clubber dirigendone i movimenti, senza tutti quei dettami stabiliti dalle leggi del mercato degli sneakerheads o degli urban fashion addict.

Tutto ciò che indossiamo oggi proviene dal passato.

Dalle strade alle passerelle new-age, il nostro è un viaggio a ritroso nei primi anni ’90, quando la nascente club culture e i suoi clubbers seguivano codici ben definiti di stile: il Clubwear, ovvero lo Streetwear ante-litteram

Acid House e Techno, eccessi di droga ed autodistruzione, la magia della notte: un parallelo di delirio dentro il quale sono nati all’unisono, è il caso di dirlo, musica e moda.

Clubbing e stile sono sempre andati di pari passo: un pilastro essenziale sbocciato alla fine degli anni ’80 in Inghilterra, quando i giovani lavoratori svestivano i panni workwear – ossia divise e le tute delle fabbriche, per vestire i panni comodi e cool della cultura rave. Perfettamente esplicato dal fotografo Alfred Steffen che nella sua opera ‘Portrait of a Generation‘ ha documentato intere generazioni di clubbers e il loro inconfondibile stile.

La moda, nella sua totale funzione di comunicazione permanente e libera dalla dipendenza del marketing, si unì naturalmente al movimento dei clubber dirigendone i movimenti, senza tutti quei dettami stabiliti dalle leggi del mercato degli sneakerheads o degli urban fashion addict.

L’immaginario colorato e audace dei clubber e gabber indicò la strada da percorrere ai diversi designer, che crearono intere collezioni basate su parametri mimetici e funzionali al club, così come fece Prada con la sua ispirazione sportiva legata alla cultura techno.

 

Pantaloni di vernice, gilet riflettenti, tee colorate e chiaramente sneakers – la droga legalizzata dei clubbers – componevano l’universo vibrante al neon dalla fine degli anni ’80 all’inizio dei ’90; tutti riferimenti ripresi da Raf Simons nella FW18 e da Virgil Abloh per Louis Vuitton.

CLUBWEAR REFERENCE

Il Clubwear trovava le proprie radici in un certo stile anti-establishment del punk, come insegnano i giovani berlinesi che lasciandosi alle spalle le macerie del crollo del muro, avevano voglia di fare festa nel modo più trasgressivo possibile, indossando capi con rimando militare: pantaloni mimetici o cargo, Tee con grafiche di bombe a mano o simboli radioattivi, stivali “da combattimento” con maxizeppe

 

POSMODERNISMO

Hysteric Glamour, brand streetwear giapponese nato nel 1984 – copiò i temi e le grafiche dei manifesti dei film Baxploitation degli anni ’70 e li stampò su magliette e stikers, creando un vero e proprio movimento largamente diffuso nel clubwear, così come fecero i fan di DJ Hell che indossavano Tee con il logo della compagnia petrolifera Shell ma enza la lettera “S”.

Da Tokyo e Berlino, rispettivamente le due patrie mondiali della musica Techno, si diffuse la suola platfom, come le scarpe esagerate e audaci del brand tedesco Buffalo

Una rielaborazione ironica della moda di oggi, vede pezzi iconici di chiari riferimenti clubwear come le Crocs di Balenciaga, le borse di Ikea, la maglietta Putin di Heron Preston e tanti altri items ispirati alla cultura pop di tantissime aziende streetwear.

DIY

Il Do-It-Yourself  e gli ideali di individualismo hanno influenzato enormemente la moda degli anni ’80 e ’90. Decenni in cui la strada dettava le sue fondamentali regole, che tutti – compresa la moda istituzionale – seguiva religiosamente. Il DIY mescolava con astuzia pezzi costosi ed economici, vecchi e nuovi, personali e iper-brandizzati.

La straordinarietà dello stile Clubwear risiedeva nel fatto che non esisteva un unico stile Clubwear ma vari linguaggi, eterogenei e creativi, che confluivano in un unico stile di vita; alcuni designer provavano a riunire tutto quel vasto immaginario in modo omogeneo, unendo tessuti, stile e tecniche di collage surreali, come fecero lo stilista berlinese Frank Schüte con le sue uniformi di nylon blu scuro e Xuly Bët.

SEX

La moda riconoscibile e rintracciabile sotto lo stesso linguaggio stilistico non esisteva; la nudità era considerata un elemento identificativo per l’abbigliamento Clubwear, che si manifestava tra le mura dei piccoli club e durante i grandi eventi, come la ‘Love Parade’ Di Berlino.

Essere “sexy” significava indossare il minimo indispensabile, rivelare molta pelle e dare l’idea di essere un soggetto sessualizzato. I must have erano le magliette trasparenti e aderenti, gonne corte, pantaloni stretti e scarpe stravaganti.

Gli uomini, invece, si liberarono da tutti gli stereotipi gay mostrando i propri corpi in modo disinibito, indossando abiti stretti e giocando con le ambiguità, proprio come facevano i Village People. La fluidità di gender, i piercing o il body sculpting erano la consuetudine, diversi anni prima che divenissero simboli del mainstream.

SCI-FI

Nell’immaginario collettivo, la scena EDM si collegava strettamente al feticcio del nuovo computer e alle sue infinite possibilità; “Kiss the Future” era uno dei claim del designer Walter van Beirendonck x Wild and Lethal Trash, che con le sue collezioni ha reso di moda la club culture, con i suoi colori forti e i design di ispirazione futuristica.

Uno dei brand più audaci e trash dell’epoca fu “Sabotage”, fondata dal producer Michael Dannroth e ispirata all’estetica tecnologica e industriale.

Sabotage riuscì ad abbattere tutte le barriere stilistiche, distruggendo e decodificando i vestiti in modo sperimentale con nuovi tessuti e silhouette; ci riuscì con una collezione leggendaria: “Washed destroyed sweatshirt”. Il suo approccio era radicale, introdusse fibre di ceramica nei tessuti filati per proteggere i ravers dal surriscaldamento; oppure lanciò giacche di rete metallica tradizionalmente utilizzate per la serigrafia.

L’introduzione della tecnologia non era un vezzo della moda clubwear, piuttosto una necessità in caso di condizioni più estreme.

TESTO: Manuela Palma

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