L’immaginario onirico generato dal Web di Jon Rafman
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Rafman crea personaggi che sembrano usciti da un dark web immaginario: sintesi stranianti tra il 3D animation e scene aggrappate alla realtà; il tutto dà vita ad un quadro composito in grado di aprire varchi verso una dimensione alternativa, ma disturbante.

Ambientazioni colorate ma sinistre, soggetti ambigui, luci disturbanti.

Jon Rafman – classe 1981 – è considerato il “messia” della Digital Art.

Ha creato la sottocultura della società “liquida”, rappresentando su schermo esseri freak metà uomini – metà animali, generati innaturalménte dalla globalizzazione digitale.

Si è fatto conoscere al grande pubblico anche grazie alla sfilata Balenciaga S/S19, per la quale ha creato un tunnel psichedelico immersivo, claustrofobico, fatto di luci e atmosfere surreali – in cui i modelli si muovevano come automi e una voce in sottofondo ripeteva ossessivamente:

“Presence is the key. Now is the answer.”

Uno show travolgente, che ha letteralmente sopraffatto il pubblico catapultandolo da una dimensione all’altra.

Rafman crea personaggi che sembrano usciti da un dark web immaginario: sintesi stranianti tra il 3D animation e scene aggrappate alla realtà così come la conosciamo; il tutto dà vita ad un quadro composito in grado di aprire varchi verso una dimensione alternativa, ma disturbante.

Servendosi di supporti e linguaggi diversi che spaziano dall’arte digitale, alla fotografia, fino all’installazione e alla scultura; Rafman indaga in modo profondo la preoccupante fusione tra simulazione e realtà nella società contemporanea, attraverso la realizzazione di opere che confondono il mondo materiale e virtuale – creando sconcerto e riflessione a chi le guarda

La sua ricerca immersiva fino alle viscere più malodoranti del deep web gli ha permesso di vestire i panni di un antropologo amatoriale e digitale, in grado di raccogliere, in modo quasi ossessivo, testimonianze significative abbandonate in rete.

Tutta la sua produzione di video arte ha sempre una voce fuori campo che ripete in modo ipnotico sempre la stessa frase, e accompagna le sequenze di fotogrammi selezionate da internet, videogame, chat online, vecchi forum in un’incredibile meltin’pot apparentemente confuso, ma che segue una sua logica precisa.

Opere come  “In A Man Digging” (2013) o “Remember Carthage” (2013) mescolano frammenti di videogame anni ‘90 ad ambientazioni reali, seguendo una narrazione surreale ma avvincente.

I suoi lavori si addentrano nei temi della memoria – dapprima in quella dei floppy disc – poi in quella umana ed emotiva.

Le opere di Rafman sono esposte nelle gallerie più all’avanguardia del mondo, come la Sprüth Magers di Berlino e Los Angeles, la New Online ArtNew Museum di New York, alla Saatchi Gallery di Londra, o al Museum of Contemporary Art Kiasma di Helsinki – solo per citarne alcuni.

L’ultima mostra, esposta all’Ordet a Milano e intitolata ‘ᖴᗩᑕIᗩᒪᔕ I’ (2022) è una raccolta di «UV map»: skin facciali derivati da scansioni di volti reali utilizzati per la creazione di avatar del metaverso, modificati dall’artista con vari livelli di interventi.

L’esibizione ha voluto mettere in luce la deriva degli avatar che stanno sostituendo, in modo preoccpante, le persone reali. Come ha dichiarato Rafman:

«La soggettività si è degradata a tal punto che non possiamo più nemmeno dire di essere dei soggetti»

Jon Rafman fa immergere lo spettatore in un’esperienza partecipante, con ondate alternate di piacere viscerale e sentimento di rigetto – quasi disgustose – compone come un romanzo la struttura dell’opera, da seguire fino in fondo.

L’arte di Rafman è un trip mentale, che paradossalmente consente di svegliarsi dall’intorpimento della società iper-digitalizzata.

 

TESTO: Manuela Palma

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